Il discorso del Sindaco: i TAGLI stanno polverizzando la Repubblica e il suo Popolo

 

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Ecco l’intervento che il sindaco Stefano Ceffa ha preparato per la XV Conferenza Nazionale Anci che si terrà il 10 luglio 2015 a Cagliari e alla quale è stato invitato dopo la lettera al presidente Sergio Mattarella sui tagli ai Comuni. Da questo discorso avrebbe tratto anche l’intervento da pronunciare a Ballarò ieri sera, ma purtroppo non c’è stato il tempo.

Definire una piattaforma politica attorno alla quale sviluppare un dibattito che possa portare ad una positiva evoluzione del sistema è vocazione tipica dei Comuni, in particolare di ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e alla quale nessun Comune si è mai sottratto. E’ evidente che in questi anni abbiamo assistito ad una sorta di processo trasformativo più “per tentativi” che ragionato e pianificato nell’interlocuzione con i Comuni e più dettato da tendenze empiriche che da letture puntuali delle realtà dei municipi. 
Sappiamo tutti però che è una lettura attenta del presente ciò che consente di costruire le prospettive per il futuro. 
Questa lettura non può prescindere da un’analisi critica, anche severa, del contesto rispetto ad enti superiori che, senza infingimenti, non hanno avuto e ancora dimostrano di non avere sufficiente rispetto di chi, Sindaco, senza scorta, senza auto blu, senza vitalizio, senza privilegi, dopo un giorno di lavoro serve questa Repubblica, serve la sua Gente, si accosta ai suoi bisogni e tenta di fornirvi risposte.
L’analisi del contesto non può prescindere dalla riaffermazione che la Repubblica è una e indivisibile, ma la riaffermazione del principio di questa indivisibilità, di questa unicità è messo fortemente a rischio da politiche barbare di tagli insopportabili che la stanno polverizzando e stanno sbriciolando insieme alla Repubblica anche la speranza del suo Popolo.

L’analisi del contesto non può prescindere dalla considerazione che nel mare agitato della crisi economica in cui la disperazione montava dai bassifondi dell’abbandono, 8000 sindaci hanno dimostrato di essere lo Stato, hanno con creatività, sacrificio, senso del dovere, rispetto della dignità dell’uomo, raccolto la disperazione dei propri concittadini e li hanno aperti a prospettive di speranza. I fondi di solidarietà, i lavori socialmente utili, l’impiego dei voucher, i fondi di garanzia, i fondi per le locazioni, la creazione di meccanismi virtuosi di inclusione sociale, gli orti solidali, gli empori della solidarietà, i percorsi ci cohousing e tutto quanto ha generato speranza in chi si sentiva abbandonato dalla vita e dallo Stato sono l’esempio di come i Sindaci siano stati capaci di mettersi in sintonia con i bisogni delle persone. Il corrispettivo di aver declinato il senso di questo Stato come organismo vivo e vitale e non come participio passato del verbo essere si è tradotta in una politica di massacro dei bilanci comunali, un attentato vero e proprio al sistema delle autonomie locali che dovrebbero essere riconosciute e promosse ma che vengono umiliate con tagli aborrevoli scaricati sulla schiena dei cittadini nello stesso momento in cui si professa una riduzione del prelievo e della pressione fiscale.

L’analisi del contesto non consente di non cogliere, forse in modo che a taluni potrà sembrare anche troppo severo, un disegno preciso di smantellamento del sistema dei comuni specie quelli più piccoli per dare la possibilità, dietro ad un peloso obiettivo di rafforzamento del sistema, di consentire alla peggiore politica e alle logiche partitiche di occupare gli spazi che la società civile, civica, laica ha occupato con dignità e dando dignità allo Stato.

In queste sedi abbiamo più volte esaminato ed esposto dati che, in modo incontrovertibile, hanno dimostrato le contraddizioni che, senza infingimenti, hanno comportato un dibattito, de jure condendo e purtroppo anche de jure condito, i cui obiettivi e i cui effetti paiono francamente contraddittori.
Si evocano spesso scenari macroecnomici e sovranazionali per determinare mutamenti legislativi e sacrifici dietro il grido piuttosto ipocrita de “è l’Europa che ce lo chiede” ed allora appare quanto meno fonte di confusione il raffronto tra questi scenari ed i dati di confronto tra i municipi nella UE e popolazioni nazionali:
Germania: 83.000.000 abitanti 12.000 comuni
Francia: 62.000.000 abitanti 36.000 comuni
Austria: 8.000.000 abitanti 2.300 comuni
Spagna: 47.000.000 abitanti 8.100 comuni
Svizzera: 8.000.000 abitanti 2.516 comuni
Italia: 60.000.000 abitanti 8.000 comuni
Il dato che emerge evidente è che non si può evocare costantemente una legislazione ed uno scenario sovranazionale per poi escluderlo quando si scende nell’esame delle scelte che riguardano elementi omogenei nel raffronto tra le realtà che tali macrosistemi compongono. 
Lo scenario europeo restituisce l’immagine di una Italia che ricopia in modo virtuoso i dati del rapporto tra popolazione e municipalità del resto d’Europa.
A nessun francese, tedesco o spagnolo è venuto o verrebbe in mente di farsi contaminare da un certo “fusionismo” di maniera che invece imperversa in modo un po’ ossessivo a tutti i livelli della nostra comunità nazionale al punto di darlo come dato ineluttabile anche talvolta tra i nostri cittadini. 
Da questo punto di vista, una certa autocritica, occorre farla in relazione specie alla capacità e alla determinazione con cui i comuni ed in special modo i piccoli comuni hanno contrastato un certo modello che ha preso piede e che rischia, non solo di alimentarsi ma, ancor più gravemente, di concorrere ad un peggioramento del sistema.

Volendo scendere nei tecnicismi potremmo esaminare nel dettaglio la spesa pubblica italiana che restituisce dati incontrovertibili: il 92% della spesa pubblica è rappresentata dalla spesa centrale e periferica di secondo livello, l’8% è rappresentato dai comuni ma di quell’8% i piccoli comuni ne rappresentano circa l’1%. Di che parliamo allora? Siamo allineati e virtuosi rispetto allo scenario Europeo, rappresentiamo una percentuale ridicola della spesa pubblica e tutti i comuni assieme rappresentano meno del 3% del debito pubblico; se questi sono i dati allora occorre andare a ricercare altre ragioni dell’accanimento rispetto alle autonomie locali ma non se ne trova neppure se si esaminano nel dettaglio i differenziali tra gli indicatori di costo tra piccoli e grandi.
Ogni indicatore: spesa del personale rispetto agli abitanti, peso del titolo primo della spesa rispetto ai medesimi abitanti fino all’imposizione locale restituiscono un dato che non giustifica l’accanimento che in questi anni si è registrato rispetto ai municipi e in particolar modo rispetto ai piccoli comuni che”pagano dazio” rispetto ai grandi solo rispetto alla spesa per finanziare il titolo secondo della spesa rispetto agli abitanti. Ma a nessuno sfuggiranno le ragioni ineluttabili di quel dato.

Allora deve esserci dell’altro, perché, è evidente: non sono i comuni e non sono i piccoli comuni che possono garantire un contenimento della spesa pubblica e chi lo pensa non sa di cosa parla e se lo dice dispensa un relativismo acritico con finalità altre rispetto alla ricerca della verità.
Quali? A voler essere maliziosi, occorre che ce lo diciamo: siamo pericolosi. Siamo uomini liberi che rispondono prima alla loro coscienza, poi alla loro comunità e solo in terza battuta e solo per pochi alle proprie segreterie di partito. Siamo un esercito senza padroni e con la bandiera delle nostre autonomie e questo ci rende i pericoli pubblici numero uno. Non si capirebbe del resto l’equivalenza che è stata imposta in questi anni tra noi e le poltrone, una vergogna che grida vendetta a Dio! A meno che qualcuno non abbia fatto esperienza di poltrone che tagliano l’erba, che assistono i bambini nello scuolabus, che ritirano la posta per gli uffici comunali, che passano giorno e notte a presidiare il territorio. 

Eppure ciò che è stato tagliato non sono stati i seggi del Parlamento della Repubblica i cui numeri sono realmente una sentenza di condanna per la nostra classe dirigente rispetto al resto del mondo ed i cui emolumenti sono un affronto a chi, come noi, si trova accostato al concetto di spesa. A scanso di equivoci ripassiamoli:
FRANCIA: 577
GERMANIA: 630
AUSTRIA: 183
SPAGNA: 400
SVIZZERA: 200
USA: 435
CANADA: 105 + 308
RUSSIA: 350
ITALIA: 630+315
Meglio, o peggio di noi, solo la CINA che ne ha 3000! ma si riuniscono solo al mese di marzo. E’ chiaro che però se aggiungessimo anche i governi regionali e le municipalizzate allora rischieremmo di vincere per distacco anche con la Cina.
Ed invece no, le “poltrone” le hanno tagliate ai comuni realizzando una vera e propria azione di killeraggio sociale e della partecipazione, pagato in larga misura dai giovani e dalle donne. 
Senza alimentare il senso di antipolitica non raffrontiamo gli emolumenti ma basti rammentare che mentre il Presidente degli USA guadagna 315.000 euro l’anno un parlamentare italiano ne porta a casa più della metà e comunque il doppio del primo ministro spagnolo che di euro ne guadagna 80.000, meno di un semplice dirigente italiano neppur di un grande comune.

Questa lunga premessa era necessaria per entrare invece nel merito delle sfide che ci vengono poste e da cui non intendiamo fuggire in quanto i comuni, prima dello stato e prima che lo stato lo chiedesse loro, hanno avviato processi di autoriforma. Allora andiamo per temi:

1. GESTIONI ASSOCIATE: i comuni non sono MAI stati contro le gestioni associate, i comuni hanno da sempre usato le gestioni associate per rispondere alle esigenze di efficientamento dei propri servizi. In cosa non concordiamo allora? Nelle modalità, nell’imposizione dei modelli astratti ed empirici, nel tentativo surrettizio di costruire modelli di omologazione ai grandi. Se una cosa funziona perché sfasciarla? Come pensare che smontando ciò che è efficiente si possa dare efficienza a ciò che non lo è. Ma poi, ancora, stante lo scenario che vede ancora persistere il blocco delle assunzioni, come pensare di sottrarre i “grandi” al concorso all’efficientamento del sistema? Quale logica nella sottrazione dei grandi centri all’associazionismo delle funzioni? Come pensare di rafforzare il sistema togliendo ciò che in quel sistema dovrebbe rappresentare l’anello più forte in una logica di contenimento della spesa e di solidarietà con i centri più piccoli? Non c’è alcun senso nel modello imposto, non c’è senso nell’imposizione di un numero fisso di funzioni da associare. Sarebbe assi più sensato lasciare ai territori, alle singole municipalità, determinare cosa associare e cosa no. Non certo tutte le funzioni, anche nella logica di dimostrarne poi l’economicità. Potrebbe essere invece ragionevole tornare ad una sperimentazione che coinvolga 3 delle funzioni fondamentali su ambiti adeguati di gestione definiti in sede locale e recepiti dalle Regioni senza vicoli demografici né territoriali. La logica è che ogni comune conoscendo il proprio territorio può concorrere alla definizione di un ambito adeguato di gestione delle funzioni. Stabilire soglie che rischiano di assomigliare più ad un letto di Procuste che a dimensioni ottimali, obbligando a deroghe, che sono francamente il contrario della definizione di strumenti programmatori dignitosi, è anacronistico e impercorribile così come ci dimostrano i dati raccolti in questi anni e le domande di deroghe straordinarie pervenute alle regioni in questi mesi accanto alle deroghe ordinarie già recepite normativamente.

2. FUSIONI: il tema non è un tabù. Non parliamo dell’aglio per Dracula o della kryptonite per Superman. Siamo persone serie. Le fusioni però devono rimanere processi volontari e spontanei che nascano dalla comprensione del senso di una comunità nuova che si vede rappresentata da un ente nuovo. Il “fusionismo” che nasce da incentivazioni, che pure possono permanere, ma che non possono erodere la spesa storica, se mai fosse effettivamente rispettata, non può dipendere solo da queste, dacché il senso di una comunità non può essere legato a meccanismi premiali temporanei cessati i quali si rischia di aver perso una identità senza aver costruito l’appartenenza ad una nuova comunità.

3. SEMPLIFICAZIONE: il tema della semplificazione è tema complesso che deve trovare però immediate risposte. Un primo tema riguarda i bilanci: hanno ancora senso bilanci pluriennali in un contesto in cui la fiscalità comunale e centrale viene ogni anno messa in discussione e dove lo storico non esiste? Ha senso l’impianto logico del nuovo 118 con l’impossibilità effettiva di programmare i pagamenti per il semplice fatto che non si hanno i trasferimenti e i bilanci approvati a luglio impongono una sofferenza delle entrate fiscali proprie che vengono di fatto relegate al 4 trimestre? Ha senso una fiscalità comunale che è divenuta, di fatto la proiezione ortogonale di un federalismo al contrario, secondo il quale le imposte locali alimentano il bilancio dello stato centrale che sposta alla periferia non risorse ma gli oneri per l’esazione? Quale idea di semplificazione nasce dal combinato disposto di MEPA, CIG, CUP, DURC e CENTRALI UNICHE DI COMMITTENZA? E’ questa l’idea di semplificazione quando basterebbe un allargamento della responsabilità contabile o l’indicazione reale dei costi standard? Quale logica c’è dietro il profluvio, spesso ridondante di comunicazioni che vengono inviate ad ogni ufficio periferico o centrale dello stato? Quale idea di semplificazione abbiamo rispetto all’evoluzione del sistema post Bassanini in cui sovrapponiamo responsabilità dei funzionari che si legano a Segretari i cui costi sono significativi ma la cui presenza dentro i municipi è spesso ridotta a numeri da prefisso telefonico per atti meramente formali? Cosa ha semplificato la tesoreria unica se non togliere in un sol colpo le sponsorizzazioni e comportare, conseguentemente l’onerosità di mandati e reversali? Ha senso, ma qui la domanda è più retorica delle altre, quel costrutto logico-giuridico-finanziario del patto di stabilità per i piccoli comuni? Quale logica c’è nel vincolare investimenti e pagamenti per municipalità che a finanziare il titolo secondo della spesa hanno risorse limitate che di fatto impediscono l’applicazione degli avanzi economici e di amministrazione che pure ci sono e potrebbero giocare un ruolo non indifferente nel rilancio di una economia ancora asfittica? E’ semplificazione la costituzione dell’anagrafe unica? Quale modello prevediamo per il superamento delle Province considerati i termini potenziali dei referendum confermativi nel 2016? Vivremo l’ennesima proroga o è possibile ragionare oggi in termini di deleghe di funzioni, deleghe di risorse, trasferimento di personale, per evitare che tutto divenga emergenza?

In conclusione è fondamentale costruire una piattaforma politica di dialogo con il governo centrale che recuperi la sintonia con il sentimento comune che continua a riconoscere i comuni come gli ultimi interlocutori credibili di uno Stato che va perdendo capacità di rappresentare la comunità civile su cui legifera. 
Questa piattaforma deve affermare con forza che NON SERVONO MENO COMUNI MA PIU’ COMUNE, più presidio del territorio, più libertà di pensare politiche di difesa delle comunità, più tutela dei servizi che sono poi l’ultima difesa dei territori e dunque il più importante strumento di contenimento della spesa pubblica contrastando il dissesto, l’abbandono, il depauperamento delle culture; più possibilità di elaborare strategie di rilancio del nostro sistema produttivo che ha trovato in tanti sindaci elementi di fantasia e dinamismo che parevano smarriti nei più; più libertà di pianificazione di lungo periodo; più sostegni ai campanili perché il problema non sono i campanili; i campanili sono semmai una risposta anzi sono LA risposta.
Dobbiamo avere assieme la comprensione che quella che si sta aprendo è una battaglia di civiltà e se dovrà comportare una contrapposizione anche aspra con il governo centrale, se si tradurrà in una battaglia anche cruenta sul piano del confronto rispetto ad una diversa visione dello Stato e dello Stato di diritto, allora che venga! Sarà forse l’ultima battaglia della lotta di Liberazione! E nessuno che sta sopra di noi, osi contrapporre una presunta superiorità funzionale. Chi rappresenta il popolo siamo noi Sindaci i soli scelti direttamente dalle nostre Comunità! I soli che hanno titolo di dire che rappresentano la propria Gente! Ed è per questo che un minimo di decenza e rispetto della verità comporterebbe volontà di ascolto reale e coinvolgimento vero nelle scelte strategiche che riguardano il sistema delle autonomie locali. Questo impegno lo dobbiamo alla nostra gente. Ai nostri concittadini dobbiamo lasciare non “conti in ordine” ma l’idea e la sostanza di una comunità, di un popolo, che guardi con fiducia al futuro. Un futuro che il sistema dei Comuni è in grado di garantire ammesso che non venga ucciso da logiche ragionieristiche che riducono la politica ad economia e l’economia a statistica e da uno Stato centrale che, incapace di attaccare i reali centri di spesa improduttiva e i sempre più inaccettabili privilegi di una casta che finisce con il rappresentare più neppure sé stessa, decide scelleratamente di uccidere l’ultima speranza delle nostre comunità.
A ciascuno, nel quotidiano impegno e nelle difficoltà di ogni giorno, la consolazione di un grande uomo, don Luigi Sturzo, che un secolo fa ebbe a dire: 
«Gli Stati li hanno fatti gli uomini, i Comuni li ha creati Dio…».