Il discorso del Sindaco per la FESTA PATRONALE

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Riportiamo il discorso pronunciato dal sindaco Stefano Ceffa questa mattina durante la festa in onore di Santa Maria Assunta, patrono di Bioglio.

Popolo mio carissimo di Bioglio,
dal grembo di questa terra dolcissima e austera insieme ci gloriamo di nascere. La prima cosa che sento di doverti esprimere in questo giorno di festa è la mia gratitudine. Grazie prima di tutto a te, paese mio, piccolo e semplice, che mi hai fatto nascere nella semplicità di una famiglia ricca di ciò che basta per vivere, privo di polverose inutilità, ma che proprio per questo mi hai dato la ricchezza incomparabile di tentare di capire e di cercare di servire i più poveri. Grazie culla tenerissima della nostra infanzia dove abbiamo conosciuto le prime gioie e le prime asprezze della vita ma dove abbiamo sperimentato le cose semplici e pulite di cui vivono gli umili. Grazie paese mio che ci fai innamorare di te, delle tue strade e delle tue frazioni. Con le tue case a schiera e le tue ville austere, con tuoi meriggi assolati e i prati coperti di brina, con i tramonti suggestivi dietro ai monti, i venti forti e le quietitudini solenni ci hai fatto innamorare della vita e del creato. Grazie per questa Chiesa che oggi festeggiamo, tempio stupendo e casa di tutti. Grazie perché qui sono germogliate le mie speranze più belle, sono fiorite le mie ansie e le mie attese. Nelle penombre della messa del giovedì o delle prove del coro, rischiarati da una lampada, sono fioriti i miei progetti. Qui ho appreso il senso della vita, ho vissuto quelle ineffabili solidarietà umane che ti fanno sentire più buono. Qui nei momenti di dolore abbiamo condiviso con tanta gente l’amarezza della morte e il pianto degli afflitti. Tra queste arcate meravigliose sembrano impigliate musiche d’organo e lembi di antiche orazioni. Qui dove tutti noi abbiamo un angolo denso di ricordi e caro alla memoria c’è un posto vuoto dove ha pregato qualcuno a noi caro.

Ma perché siamo qui? Non siamo venuti qui per celebrare l’enfasi della nostra vanagloria cittadina, ma per celebrare la festa della nostra comunità. E quale modo migliore per farlo che farsi provocare da quanto stiamo vivendo? Ecco allora una prima provocazione ed un primo augurio: cosa significa “fare festa”? Prima di tutto paese mio carissimo ti auguro che tu possa scoprire il senso della “festa del paese” scoprendo la centralità e l’unicità di ogni persona. Voi amici che condividete con me il dono della Fede ma anche voi che non condividete le nostre speranze: chissà quante volte abbiamo sperimentato la scarsa intelligibilità della vita. Che senso hanno le fatiche e i sudori, le angosce e le gioie, le attese e le speranze, le lacrime, i tormenti, gli amori e le delusioni, il vivere ed il morire. C’è una direzione verso cui confluiscono le attese, le aspirazioni, i dinamismi, i travagli, le macerazioni, i progetti, i fallimenti, le costruzioni dello spirito umano? Perché mai siamo inquieti? Non c’è nulla che copra completamente il nostro bisogno di felicità. E quando pensiamo di aver raggiunto tutto ci accorgiamo che ci manca sempre qualcosa. Da che dipende che in mezzo a tanta gente avvertiamo la solitudine, che nonostante la sincerità delle amicizie e l’infinità degli amori ci accorgiamo che l’altro ci sfugge. Che nonostante i soldi, i piaceri, gli anni giovanili, ci ritroviamo poveri e vuoti? E’ il senso della Comunità che a volte manca, per cui tutto ci sembra slegato, sconnesso, privo di significati profondi. L’augurio che io rivolgo a me e a voi, è che possiamo scoprire il senso della Comunità non nella sbornia dei festeggiamenti ma nella ferialità di tutti i giorni: nel volto dei vicini, nella storia che noi siamo chiamati a costruire. L’altro augurio che vi rivolgo è di saper costruire il senso del nostro vivere, di costruire insieme la nostra storia, uscendo dal terreno delle rivalità che steriliscono gli sforzi dei più generosi, avviliscono le speranze dei più poveri, snervano le capacità operative dei più intraprendenti.

Questo si traduce con una parola: Comunione. Comunione non significa tregua santa, patto di non belligeranza, neutralità disarmata, armistizio temporaneo, federazione provvisoria. Significa impegnarsi in prima persona senza delegare troppo facilmente gli altri, significa sacrificarsi perché vadano avanti i progetti migliori senza guardare chi li ha concepiti. Significa riconoscere, apprezzare, incoraggiare quello che di buono viene proposto senza lacerarsi in mille diatribe e vanificare gli sforzi con sottigliezze bizantine. Significa rinunciare al vuoto di tante sterili discussioni per privilegiare concretezza e bene comune. Comunione significa collaborare, interessarsi della cosa pubblica, chiedere conto. Ma significa pure non circondare tutto di sospetti, di reticenze, di malignità reciproche, di vicendevoli avvilenti squalifiche o di partigiane pretese.

Amici, e qui so di rischiare di non essere compreso: essere comunità non significa solo fare la carità, aiutare un disabile, venire in contro agli anziani, visitare gli ammalati. C’è un versante sociale, una traduzione comunitaria che ci impegna tutti urgentemente, perché si esca da un immobilismo che paralizza la vita pubblica, che avvilisce il nome della nostra patria, danneggia i poveri, gli ultimi, quelli che non hanno voce, quelli che non hanno lavoro, quelli che non hanno speranze e diventano i capri espiatori anche della nostra inettitudine sociale. Voglia il cielo aiutaci a ritrovare le strade della Comunione e del Servizio e obbediremo così in modo moderno e convincente al più grande imperativo categorico, laico e cristiano: quello della fratellanza. Che la nostra festa patronale possa portare con sé, oltre che un po’ di svago anche la meditazione e la realizzazione di queste speranze e di queste promesse.

Buon cammino a tutti e buona “festa del nostro paese”.